
Incontriamo Massimo Iosa Ghini, architetto e designer bolognese, seduti su Proust, il divano che ha disegnato per Chateau d’Ax. È quindi naturale partire da qui…
Come è nato il progetto di questo (comodissimo) divano? «È un divano pensato per un uso familiare: sul quale è un piacere sedersi tutti insieme. Volevamo un divano recliner dalle linee morbide, in cui la tecnologia che lo compone fosse celata e che offrisse un naturale senso di accoglienza».
Il design quello fa, no? Nasconde la tecnologia sotto la forma… «Non sempre, può accadere anche il contrario. Ma nel mondo del relax la tecnologia non va sicuramente ostentata. In un prodotto che ha un senso di comune riconoscibilità come la poltrona o il divano di casa, l’idea stilistica è quasi in secondo piano rispetto alla ricerca della comodità. La forma stessa deve dare un’idea di invito, di una poltrona, di un divano da vivere. Per questo, nel progettarlo abbiamo fatto un lavoro di sottrazione e di lettura di codici comuni. A me piace usare la dicitura ‘luogo comune’, che solitamente ha un senso negativo e che io vedo invece come un ‘luogo’ di accordo e armonizzazione, un concetto da condividere. Quindi anche un oggetto, un arredo che tutti possono percepire per quello che è diventa un ‘luogo comune’, qualcosa anche da tramandare di generazione in generazione».
Ma un designer non dovrebbe invece andare contro questi ‘luoghi comuni’? «Dipende dal momento, dal brand con cui si lavora, dal suo stile aziendale… Se penso ai miei inizi, a quando progettavo con Sottsass per Memphis Milano, allora si faceva avanguardia e si cercava una rottura degli schemi. Altre volte, in altri tempi e momenti storici, invece, lo schema va utilizzato a vantaggio nostro e di chi fruisce di un prodotto».
Una fruizione che deve essere anche piacevole… «Certamente, oggi c’è un certo pudore a utilizzare termini come piacere, edonismo, che riportano subito agli Anni ’80… Forse in quel periodo si è andati anche un po’ oltre nella concezione del piacere, ma è anche vero che nei decenni successivi abbiamo assistito a una restaurazione, al ritorno di una sorta di Calvinismo e di pauperismo culturale che mi ha sempre lasciato perplesso, perché la ricerca del piacere è nella natura umana. Anche nel nostro stile di vita: l’individualità non può essere messa sempre in secondo piano. Come essere umani, abbiamo diritto al piacere e alla sua ricerca».
Anni ’80: la sua carriera è nata in quel periodo, con il movimento Bolidista e la collaborazione con il Gruppo Memphis di Sottsass… Ci racconta quell’avventura? «Il Bolidismo era già programmaticamente fuori dagli schemi. Si fondava su simultaneità, velocità e ubiquità, sull’essere in più luoghi contemporaneamente. L’Avanguardia Anni ’80, i collettivi come Alchimia e Memphis e anche il Philippe Starck dell’epoca con la sua visione così avanzata, ci hanno insegnato ad andare oltre la funzione, inserendo messaggi negli oggetti. Fino a quel momento, l’idea del progettare consisteva nel fare un oggetto che funzionasse bene, con certe caratteristiche che lo rendessero facilmente utilizzabile… Una grande propensione per la funzione, che ovviamente è imprescindibile, ma l’inserire un messaggio in un prodotto preconizzava già la civiltà dell’immagine della comunicazione attraverso le immagini che sarebbe venuta dopo».
Si ricorda un progetto significativo di quei tempi? «Il primo che mi viene in mente è ‘Le strutture tremano’ di Ettore Sottsass per Studio Alchimia (un tavolino dalle tremolanti e sottili gambe in tubolare d’acciaio, ndr): è ovvio che con un nome di quel genere tu stai proponendo un messaggio – che scaturiva dall’Architettura Radicale degli Anni ‘70 – non solo un prodotto, un progetto. Ora magari non tutti si ricordano quel tavolino, ma il nome, il messaggio sono rimasti».
La vostra era una generazione che si riconosceva in alcuni Maestri o che invece quei Maestri voleva superarli, forse anche – metaforicamente – ucciderli? «Sì, i Maestri c’erano, per noi giovani architetti e designer erano figure alle quali guardare ma spesso anche da disconoscere subito dopo. Oggi invece la parola Maestro mi piace, perché è una parola che descrive chi sa di più, chi conosce la via e può indicarla. In quegli anni, invece, c’era una tale esplosione di situazioni, di sollecitazioni che non esisteva una via unica».
Se dovesse individuare il tratto che lega le sue molteplici attività, cosa sarebbe? «Io sono un architetto classico, tradizionale, per quel che riguarda il mio ruolo, anche se non come modalità espressiva: ho una visione orizzontale del progetto, non credo nel progetto specialistico – anche se la figura dello specialista è necessaria – ma c’è la necessità di un director, come dicono gli inglesi, di un regista. E il regista nella nostra professione non può essere specializzato, deve avere una visione orizzontale perché deve ragionare e chiedersi a chi si rivolge e come raggiungere il risultato. Che cosa sto facendo e per chi lo sto facendo? Queste sono le domande che ci si deve sempre porre, con un approccio che definirei un po’ rinascimentale, che non si limita al proprio campo ma affronta ogni ambito dell’architettura, della progettazione, del design».
Intervista di Claudio Malaguti