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Il Fuorisalone 2025 conferma la vitalità dell’evento sul piano mediatico e internazionale, ma lascia dietro di sé un senso di saturazione e stanchezza. Tanti eventi, poca sostanza, qualche distretto in crisi e un design che sembra aver perso contatto con la realtà quotidiana. Un’edizione che invita più a fotografare che a pensare.

Il Fuorisalone 2025 ha occupato Milano con una miriade di eventi diffusi, installazioni, talk e allestimenti. Numeri importanti, fermento evidente, copertura globale… eppure, a distanza di pochi giorni, quello che resta impresso è sorprendentemente poco.

Dietro il luccichio di installazioni spettacolari, l’evento sembra attraversare una fase di stallo: pochi contenuti memorabili, molta estetica e una crescente difficoltà, per il pubblico e per gli addetti ai lavori, a orientarsi in un panorama disomogeneo e sempre più dominato da logiche di marketing. Perché se da un lato la quantità ha dimostrato la vitalità della manifestazione, dall’altro ha reso ancora più evidente la distanza tra numero e qualità.

Specchi ovunque, riflessioni rare

Uno degli elementi più ricorrenti in questa edizione è stato l’uso degli specchi: superfici riflettenti, giochi di luci e illusioni ottiche sono apparsi in una moltitudine di allestimenti. Dispositivi estetici che sembrano progettati più per generare immagini condivisibili che per stimolare un pensiero critico. Ed è proprio questo uno dei tanti nodi venuti al pettine: un design che riflette se stesso, ma raramente il mondo.

La sensazione predominante è stata quella di un già visto: forme, concept, linguaggi che si ripetono, e che sembrano più interessati a sedurre l’obiettivo dello smartphone che a proporre nuovi paradigmi progettuali. In questa sovrabbondanza, anche il tema ufficiale dell’edizione, pur teoricamente stimolante, è apparso spesso come un pretesto più che una reale direzione curatoriale. Non si tratta di negare il valore comunicativo dell’estetica, ma di interrogarsi su quanto, oggi, questa estetica sia fine a se stessa.

Tante installazioni, poca casa

Un’altra tendenza evidente è lo sbilanciamento tra installazioni artistiche e troppo spesso autoreferenziali e veri contenuti legati all’abitare. La casa, tema fondante del design, sembra sempre più marginale: molti allestimenti privilegiano esperienze immersive, sensoriali, spesso slegate da ogni riferimento all’uso, alla funzione o alla quotidianità.

In molti casi, le installazioni non dialogano con il design, ma lo sovrastano. Scenografie potenti, certo, ma che lasciano il visitatore con la domanda: dov’è finito il progetto?

Serve tornare a una dimensione più autentica del design, meno interessata alla condivisione virale e più legata all’innovazione reale. Il design sembra sempre più pensato per stupire, non per servire. E quando si parla di casa, lo si fa spesso in chiave simbolica o aspirazionale, perdendo di vista la dimensione dell’abitare come fatto concreto. Il paradosso è evidente: mentre il discorso pubblico sul design è sempre più inclusivo, sostenibile, democratico nei toni, le pratiche reali vanno nella direzione opposta. Il design si allontana dalla vita delle persone comuni e si rifugia in una dimensione museale ed elitista.

Orientarsi tra comunicazione dispersiva e contenuti sfuggenti

Selezionare cosa vedere richiede tempo, intuito, e spesso una certa tolleranza alla delusione. In un calendario così ricco, ci si aspetterebbe che la comunicazione dei progetti offra chiarezza. Eppure, spesso ci si imbatte in testi vaghi e criptici, che privilegiano l’effetto scenico a discapito della sostanza, rivelando spesso progetti poco solidi e privi di profondità.

Le code, il marketing e la frenesia social

Non è certo una novità, ma quest’edizione del Fuorisalone ha fatto parlare di sé più per le interminabili code, che hanno caratterizzato molte installazioni, che per i contenuti. Un fenomeno che ormai coinvolge tutti e che meriterebbe una riflessione seria, perché sebbene la voglia di partecipare sia comprensibile, è legittimo chiedersi se, a lungo andare, la frenesia non stia distorcendo il vero senso dell’evento.

Le code, spesso lunghe e sfiancanti, non erano necessariamente legate al valore progettuale delle installazioni, ma piuttosto alla loro capacità di generare visibilità. Molte persone si sono accodate non per il contenuto, ma per la promessa di un’immagine da condividere sui social, per il gusto di dire “c’ero anche io” o per andare a caccia di gadget. Il risultato? Il Fuorisalone rischia di trasformarsi in un grande palcoscenico, dove l’effetto visivo e il marketing prendono il sopravvento sulla riflessione progettuale. Sempre più una vetrina commerciale e sempre meno una piattaforma per il confronto sul futuro del design e della casa.